Grillo: "La povertà è il rimedio". Ma la Rete lo punisce: "Tu hai lo yacht"
Beppe
Grillo pubblica sul suo blog un passo sulla povertà di Goffredo
Parise per fare gli auguri ai suoi lettori ma la Rete gli ricorda che
lui va con lo yacht in vacanza in Sardegna
Francesco
Curridori - Mar,
27/12/2016 - 13:19
È
un po' lungo, ma ne vale la pena. Armatevi di pazienza, leggetelo
fino alla fine e fatelo leggere ai vostri cari. Vi abbraccio. Buon
Natale da Beppe
Grillo".
Così inizia il post di auguri pubblicato ieri dal leader del
Movimento Cinquestelle sul suo blog.
Un
post che ha ricevuto subito non poche critiche. Beppe predica bene ma
razzola male e così, tra i commenti sferzanti della Rete, raccolti
da Il Giorno, c'è chi scrive: "Se
credi in quello che dici, destina buona parte dei tuoi guadagni al
'popolo affamato' e campa con l'essenziale. In caso contrario,
tieniti pure i tuoi soldi che ha giustamente guadagnato, ma almeno
risparmiaci la morale". E ancora: "Per un ricco, è normale
desiderare che i poveri rimangano poveri, grazie del concetto Beppe".
Ma il commento più polemico è questo: "Bellissimo
articolo. Soprattutto considerato che è stato letto su un sito
stracolmo di banner pubblicitari ed è stato scritto da qualcuno che
ha un fatturato di circa 4 milioni di euro. Non ti condanno per
quello che fai, ma per quello che dici".
Come se non bastasse sono state riproposte varie foto che ritraggono
Grillo a bordo del suo yacht,
in Sardegna, nelle acque della modestissima località di Porto Cervo.
Un vero smacco per chi, come lui, professa la “decrescita felice”.
“Evviva, Evviva; diventiamo tutti “morti di fame.
Questo articolo apparve il 30 giugno 1974, ed è straordinario. Una meraviglia di stile e di pensiero di Goffredo Parise. Circa sessanta anni prima di papa Francesco
Troviamo
utile pubblicare di tanto in tanto dei gioielli del pensiero. Questo
è un articolo di Goffredo
Parise tratto
dalla rubrica che lo scrittore tenne sul “Corriere della sera”
dal 1974 al 1975.
Si
trova nell'antologia "Dobbiamo disobbedire", a cura di
Silvio Perrella, edita da Adelphi. Questo articolo apparve il 30
giugno 1974, ed è straordinario. Una meraviglia di stile e di
pensiero di questo autore sicuramente libero e lontano da ogni
appartenenza politica e salottiera. Rappresenta per noi oggi - media
compresi che non ospitano più pezzi così controcorrente - uno
schiaffo contro la nostra inerzia.
«Questa
volta non risponderò ad
personam,
parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno
aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre
ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è
la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel
mio ultimo articolo.
Per
la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la
seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei
ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono
che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.
Lettori,
chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi
non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro
economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o
pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è
benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il
nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere)
troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli
sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il
senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo
soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati
nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo
spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è
insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei
prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è
fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi?
Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento)
rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la
comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la
benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto
insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e
vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla
povertà.
Povertà
non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà
non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di
destra.
Povertà
è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni
minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il
vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e
necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria
è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è
l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.
Povertà
vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso
economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il
prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si
compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui
sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di
comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve
durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio
dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà
è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente
obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il
vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere
questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a
protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione
elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla
vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal
nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un
intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola
cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle
voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu
agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla,
non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il
nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello
(vedi Carosello
e
poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri
occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e
del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di
nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano,
senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro
non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a
vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e
avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso,
un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba,
come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve
aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo
prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che
danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il
nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti
perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col
passare degli anni.
Il
nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché
sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si
mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli
“etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini
linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le
ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per
mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus
vocis ma,
anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I
giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici
così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici
(cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono
più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla
vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia
del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro)
esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è
obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la
loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione
Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel
nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e
politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e
pubblicizzato come l’élite,
come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa
rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione.
L’obbligo mondano impone la boutique
ideologica
e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di
nascita del grand
marché aux puces ideologico
e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei
criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La
povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per
necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori
di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione
di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare
un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello
spazio, ci emoziona.
Per
le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è
più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica
del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e
giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa
dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme
cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il
berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in
fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare,
era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare
sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si
cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco,
oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella,
come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di
soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata,
appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che
ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».
"Quest'anno voglio farvi gli auguri di Natale con un testo di Goffredo Parise pubblicato il 30 giugno del 1974, si intitola: "Il rimedio è la povertà".