sabato 17 novembre 2018

martedì 12 ottobre 2010 CHE FINE FARA' L'OSPEDALE DI FRASCATI? Da un’approfondita ricerca è risultato che lo stabile dell’ospedale di Frascati è di proprietà della “SAN.IM” spa, con sede in Roma. Dunque un soggetto “privato”. La società si costituisce il 3/06/2002 e il 28/giugno ha acquistato dalle ASL e dalle AO, 56 strutture ospedaliere ad un prezzo di 1.949 milioni di euro stipulando contestualmente con le aziende venditrici contratti di affitto trentennali. Dei 56 ospedali previsti son diventati 49 poiché 7 non inclusi nel processo di cartolarizzazione. La SAN.IM ha quindi ceduto ad una società veicolo (Cartesio ) i crediti vantati verso le ASL per il pagamento dei canoni d’affitto. La Cartesio ha emesso titoli sul mercato dei capitali suddivisi in 5 trance. Considerato che nella metà del profilo di ammortamento relativo alle prime quattro trance è stato perfezionato un derivato (Interest Rate Swap – IRS) di tipo top side le cui controparti sono, ciascuna con una quota del 25% Lehman Brothers, Unicredit, BNL gruppo BNP Paribas e JP Morgan. C’è da considerare che la Lehman Brothers spa ha subito un crack finanziario che ha causato il suo fallimento e che la regione sarebbe debitrice di oltre 33.000.000 di euro al curatore fallimentare della Lehman. In sintesi una sorta di “finanza creativa”. Tutto l’impianto di “vendita” fa acqua da tutte le parti, e non è escluso che un eventuale esproprio potrebbe avere accoglimento vista l’origine della proprietà. Sarebbe troppo lungo spiegare l’impianto di ingegneria finanziari attuato per creare liquidità per fare fronte alle esigenze finanziaria del sistema sanitario del Lazio. E’ importante che lunedì si chiuda il consiglio comunale con una mozione di esproprio dell’ospedale, poi accantonare una cifra per avere articoli sulla stampa nazionale per richiamare l’attenzione dei midia tanto che si potrebbe aprire una trattativa finalizzata alla piena funzione dell’Ospedale. Un po’ di storia, negli anni ’70 l’ospedale di Frascati aveva i seguenti reparti: chirurgia generale, ortopedia, urologia, pediatria, ostetricia, ginecologia, sala parto, medicina generale, otorinolaringoiatra, radiologia, clinica medica e clinica chirurgica, gammatrone, 2 ambulatori generali, emoteca, laboratorio analisi, cucina, lavanderia e camera mortuaria Gestione tre suore e sei impiegati. Posti letto 250 circa. Oggi circa 80 posti letto, il numero degli amministrativi supera di molto il numero dei degenti. Gli infermieri e i medici sono triplicati dagli anni 70/80. Questo dovrebbe motivare ampiamente il carico economico posto letto. Se questo parametro lo rapportiamo a livello nazionale ci spieghiamo i motivi della “voragine” economica del sistema sanitario. Un esempio nella ASL di Salerno sembra dipendano circa 12000 dipendenti. Nonostante il calo vertiginoso dei posti letto e l’esubero del personale, spesso no c’è posto per i malati costretti a “mendicare” un posto letto in altri ospedali. Il dramma che il nostro ospedale è stato spogliato di tante specialità. In pratica il nostro ospedale e relegato ad avere il padiglione psichiatrico e il reparto di pneumologia. L’aspetto più inquietante, che se un cittadino non potesse aspettare i tempi biblici dei tempi d’attesa per le visite, deve recarsi in una struttura privata e pagare le prestazioni richieste. Il questo modo i cittadini “pagano due volte” il servizio sanitario uno con la fiscalizzazione diretta e l’altra con l’imposizione di “necessità”. Per me il problema non si risolve con l’approvazione di un ordine del giorno di disappunto che lascia il tempo che trova. In un paese vicino Viterbo il Sindaco ha emesso un’ordinanza che impedisce ai suoi cittadini di ammalarsi per evitare di essere sanzionati. Il consiglio comunale deve approvare una mozione d’esproprio dell’ospedale e riacquisirlo al patrimonio comunale e riorganizzarlo in conformità alle esigenze reali della popolazione. Non solo, anche i sindaci trattati a”pesci in faccia” dovrebbero attivare le stesse procedure d’esproprio e organizzare una campagna di stampa denunciando le storture della sanità, gli stipendi degli alti dirigenti, e i disservizi causati a causa della cattiva amministrazione. C’è solo un problema i Consiglieri Comunali di Frascati non godono la mia stima e credo che non siano all’altezza per affrontare un problema cosi complesso per gli interessi in gioco intrinsechi in tutta la vicenda. Perderemo anche l’ospedale. Paolo Pellicciari

giovedì 8 novembre 2018

mercoledì 3 ottobre 2018

Estate ‘92: la crociera sul “Britannia” Dove si “cedette” all'ecomia privata il siatema industriale italiano. LA CRONISTORIA DELLA PRIVATIZZAZIONE DEL SISTEMA INDUSTRIALE DELLO STATO ITALIANO. l’ultima estate della Prima Repubblica non era ancora iniziata. Il panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, era all’ancora nel porto di Civitavecchia, in attesa di imbarcare ospiti importanti per una minicrociera verso l’isola del Giglio. Ci sarebbero stati manicaretti per pranzo, gamberetti e costolette d’agnello preparati da chef d’eccezione. Ci sarebbe stato un po’ di spettacolo, con i parà inglesi che si lanciavano dagli aerei decollati da un incrociatore. Ci sarebbe stata musica d’epoca, rigorosamente anni ‘ 30. Ci sarebbero stati soprattutto discorsi destinati a cambiare la storia d’Italia. Su quel panfilo, in quella giornata di sole e mare, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia. Gli anfitrioni della Union Jack erano definitivi, invisibles, invisibili, non perché si trattasse di una losca setta in stile feuilleton ottocentesco ma perché così si chiamano nel Regno Unito quelli che si occupano di transizioni immateriali, dunque soprattutto di finanza: finanzieri e banchieri. Gli ospiti erano l’alto comando dell’economia di Stato italiana: il presidente di Bankitalia Ciampi e l’onnipresente Beniamino Andreatta, i due artefici del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro all’inizio degli anni ‘ 80, c’erano i vertici di Eni, Iri, Comit, Ina, le aziende di Stato e lepartecipate al gran completo. C’era, a introdurre il consesso, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Fu lui a tenere la relazione introduttiva sui costi e i vantaggi delle privatizzazioni. Dicono che dalle sue parole trapelasse un certo scetticismo e forse è vero. Di certo, terminata la prolusione, sbarcò senza proseguire alla volta del Giglio. Ma non c’era scetticismo che tenesse. L’operazione avviata in quella mezza giornata sul mare era in realtà già stata decisa e non solo perché quella era allo-ra, dopo la rivoluzione thatcherian- reaganiana, il dogma economico dal quale si erano lasciati ipnotizzare tutti, la sinistra “di governo” non meno della destra. Anche e soprattutto perché quella gigantesca dismissione era condizione imprescindibile per entrare nella nascente moneta unica. Ce lo chiedeva l’Europa. Chiedeva parecchio: lo Stato controllava treni, aerei e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’ 80% del sistema bancario, l’intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate: assicurazioni, meccanica ed elettromeccanica, settore alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio. Impiegava il 16% della forza lavoro nel Paese. Vendere, o svendere, quel patrimonio, secondo i dettati della teoria economica imperante avrebbe raggiunto tre risultati: ridurre il debito pubblico che ammontava allora a 795 mld di euro, rendere più efficienti e competitivi i settori in via di privatizzazione, aumentare l’occupazione. In quell’inverno del 1992, mentre tangentopoli colpiva durissimo e si attendeva un referendum che tutti sapevano avrebbe siglato il Game Over per la prima Repubblica, nei corridoi di Montecitorio non si sentiva parlare che di “privatizzazioni” e “cartolarizzazioni”. Era la panacea, il sospirato miracolo, la bacchetta magica. Si partì nel luglio 1993, con la vendita, o svendita, della prima tranche del gruppo SME, controllato dall’Iri. L’onore di aprire la strada toccò ai surgelati e ai dolci: Motta, Alemagna, Surgela più varie e molte eventuali. Se li aggiudicò la svizzera Nestlè. Il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si prolungò fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le dismissioni presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a 56mila e passa. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale. La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. L’incasso è stato cospicuo: 127 mld di euro, una decina ricavata solo dalla vendita di immobili. Sarebbe un record se non ci fosse l’inarrivabile Regno Unito thatcheriano e post- thatcheriano che è andato persino oltre. Il bilancio però è fallimentare, almeno se si tiene conto degli sbandierati obiettivi iniziali. Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo. Il principale vantaggio promesso ai consumatori, l’abbassamento dei prezzi conseguente alla competività delle aziende private sul mercato, è stato rapidamente affondato dalla tendenza delle aziende stesse ad accordarsi ricreando di fatto condizioni di monopolio, solo a condizioni più esose. E’ vero che spesso gli utili delle aziende privatizzate sono cresciuti e spesso di parecchio. Però, come segnalava nel 2010 la Corte dei Conti, in una valutazione complessiva del ventennio delle privatizzazioni, non per il miglioramento dei servizi e la loro conseguente maggior appetibilità: solo per l’aumento delle tariffe. Se sia oggi il caso di tornare a nazionalizzare è oggetto di disfide nelle quali è difficile, per chi non abbia le necessarie competenze tecniche, decidere dove siano le ragioni e dove i torti. Però ammettere che le privatizzazioni italiane sono state un fallimento sarebbe quanto meno onesto.

sabato 8 settembre 2018

Crisi, raddoppiati i suicidi. Nel 2014 si sono tolte la vita 201 persone per motivi economici, erano 89 nel 2012 Crisi economica: negli ultimi 3 anni più che raddoppiati i suicidi. Nell’anno 2014 sono state complessivamente 201 le persone che si sono tolte la vita per motivazioni economiche, rispetto ai 149 casi registrati nel 2013 e agli 89 del 2012. Sale quindi a 439 il numero complessivo dei suicidi per motivi legati alla crisi economica registrati in Italia nel triennio 2012-2014. Sono questi gli ultimi dati resi noti da Link Lab, il Laboratorio di Ricerca Socio-Economica dell’Università degli Studi Link Campus University, che da oltre tre anni studia il fenomeno e che adesso pubblica i dati complessivi di un’attività di monitoraggio avviata nel 2012. «La crisi economica continua a contare le sue vittime – dichiara Nicola Ferrigni, docente di Sociologia della Link Campus University e direttore di Link Lab – che negli ultimi tre anni sono cresciute in maniera esponenziale. Dopo l’impennata registrata nel 2013, infatti, i suicidi legati a difficoltà economiche hanno conosciuto un ulteriore e significativo aumento nel corso del 2014 risultando più che raddoppiati rispetto al 2012. Un’escalation che ben rappresenta un drammatico scenario in cui debiti, fallimenti, licenziamenti, stipendi non percepiti, disoccupazione diventano il movente di stragi che si consumano quotidianamente. L'analisi complessiva dei 3 anni, evidenzia un fenomeno che sta interessando in maniera trasversale strati sempre più ampi della popolazione senza alcuna particolare caratterizzazione geografica, investendo con la stessa forza Nord, Sud ed Isole, e che sta trascinando prepotentemente verso la disperazione non più solo imprenditori e titolari di azienda ma un numero sempre più considerevole di disoccupati: 45% gli imprenditori suicidi, 42% i disoccupati». Segnale positivo negli ultimi mesi del 2014. « Un segnale positivo tuttavia – prosegue Nicola Ferrigni – arriva dagli ultimi mesi del 2014 che registrano una significativa diminuzione del numero di suicidi: a partire dal mese di agosto con i 12 casi registrati per arrivare ai 10 e 11 casi rispettivamente nei mesi di novembre e dicembre», il numero più basso di vittime dall’inizio dell’anno contro i 26 tragici episodi di aprile che si conferma, come nel 2013, il mese con il maggior numero di suicidi. «Si tratta con molta probabilità – continua il direttore di Link Lab – dell’ennesima iniezione di fiducia degli italiani, in linea con quella registrata dall’Istat a fine marzo che vede imprese e consumatori più ottimisti sulla ripresa dell’economia e del Paese e che riaccende dunque le speranze». Si abbassa l’età delle vittime. Dal 2012 si assiste ad un abbassamento dell’età delle vittime: la classe d’età che va dai 35 ai 44 anni, infatti, ha conosciuto un notevole incremento passando dal 13,5% del 2012 al 21,4% del 2014. Appare altrettanto preoccupante il numero dei suicidi legati a problematiche e difficoltà economiche tra i più giovani: tra il 2012 e il 2014, il 5,5% delle vittime ha infatti un’età compresa tra i 25 e i 34 anni (4% nel 2014) mentre l’1,4% ha meno di 25 anni (2,5% nel 2014 a fronte di una percentuale pari a 0 registrata nel 2012). Il fenomeno non conosce più differenze geografiche: al Sud come al Nord. L’analisi complessiva dei dati relativi al triennio 2012-2014, pur confermando il triste primato del Nord-Est – che registra complessivamente il 25,3% del totale dei suicidi – rileva una progressiva uniformità della distribuzione del fenomeno nelle diverse aree geografiche. Le regioni dell’Italia centrale infatti dal 2012 al 2014 contano il 22,3% dei suicidi, il Sud il 20,3%, il Nord-Ovest il 20% e le Isole l’11,8%. Nel 2014 più che raddoppiato rispetto al 2012 anche il numero dei tentati suicidi. Preoccupante e significativo – conclude Nicola Ferrigni – anche il numero dei tentati suicidi: sono infatti 115 le persone che nel 2014 hanno provato a togliersi la vita per motivazioni riconducibili alla crisi economica, a fronte dei complessivi 86 del 2013 e dei 48 del 2012. Salgono così complessivamente a 249 i tentati suicidi registrati in Italia per motivazioni economiche dal 2012 al 2014.

“il più pulito ha la “rogna”

“il più pulito ha la “rogna” Come si legge in un articolo a cura de Il Fatto Quotidiano. L’Unità, pagati con soldi pubblici i 107 milioni di debiti della vecchia gestione “Palazzo Chigi nei giorni scorsi ha versato il dovuto alle banche creditrici. E’ il risultato di una legge del 1998 che ha introdotto la garanzia statale sull’esposizione dei giornali di partito. Naufragato il tentativo della presidenza del consiglio di rivalersi sul patrimonio dei Ds Alla fine, lo Stato ha pagato. La caccia di Palazzo Chigi al patrimonio immobiliare dei Ds non ha evidentemente dato frutti e la presidenza del Consiglio nei giorni scorsi ha dovuto versare 107 milioni di euro (pubblici) alle banche creditrici della vecchia gestione dell’Unità. Secondo il Corriere della Sera, che riporta la notizia, mancano ancora all’appello 18 milioni dovuti alla Sga: la “società per la gestione delle attività” costituita vent’anni fa per salvare il Banco di Napoli, a differenza degli altri istituti, non ha infatti rivendicato il dovuto. Il motivo per cui i contribuenti hanno dovuto ripianare il buco del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, tornato in edicola a giugno dopo l’ennesimo salvataggio, è presto detto: una legge varata nel 1998 dal governo Prodi ha introdotto la garanzia statale sui debiti dei giornali di partito. I Democratici di sinistra, ricorda il quotidiano di via Solferino, si erano accollati l’esposizione bancaria de L’Unità. Ma sono rimasti da pagare 125 milioni. E nel frattempo nel 2007, al momento della nascita del Pd, l’allora tesoriere Ds Ugo Sposetti ha provveduto a blindare in 57 fondazioni locali il patrimonio immobiliare ereditato dall’ex Pci mettendolo al sicuro dalle rivendicazioni dei creditori. Non per niente Sposetti, intervistato sull’argomento da Report, aveva rivendicato: “Una società mi avrebbe dato tanti soldi per fare questo lavoro…”. Morale: grazie alla leggina di Prodi e al “lavoro” di Sposetti alla fine le banche creditrici hanno presentato il conto al governo guidato dal leader del Pd Matteo Renzi. E hanno ottenuto dal Tribunale di Roma l’emissione di decreti ingiuntivi contro la presidenza del Consiglio per un totale di 95 milioni. Palazzo Chigi ha fatto opposizione, ma in attesa del giudizio di appello ha dovuto aprire il portafogli. I soldi sono attualmente nei forzieri delle banche, pur “con riserva” visto che pende ancora il pronunciamento di secondo grado. Non si tratta di una prima assoluta, ricorda il Corriere: alla fine del 2003 i contribuenti hanno pagato i debiti dell’ex Avanti!, il quotidiano del Psi. Ma in quel caso la cifra era di “soli” 9,5 milioni di euro.” Giovedì 5 luglio 2018

martedì 4 settembre 2018

Napolitano: "Su Craxi durezza senza uguali" Il Capo dello Stato ha inviato una lettera alla vedova del leader socialista scomparso 10 anni fa: "Ha lasciato un'impronta non cancellabile in un complesso intreccio di luci e ombre. La sua figura non può essere sacrificata al solo discorso sulle responsabilità sanzionate per via giudiziaria" Redazione- Mar, 19/01/2010 Roma - "Voglio esprimere la mia vicinanza personale in un momento che è per voi di particolare tristezza, nel ricordo di vicende conclusesi tragicamente", lo scrive il presidente ella Repubblica Giorgio Napolitano in una lettera inviata alla signora Anna Craxi. Impronta non cancellabile "Ho ritenuto di dover dare al ricordo della figura e dell’opera di suo marito" un contributo "per l’impronta non cancellabile che ha lasciato, in un complesso intreccio di luci e ombre, nella vita del nostro Stato democratico", scrive il Capo dello Stato. No rimozioni sulla sua figura "Non può venir sacrificata al solo discorso sulle responsabilità dell’onorevole Craxi sanzionate per via giudiziaria la considerazione complessiva della sua figura di leader politico, e di uomo di governo impegnato nella guida dell’Esecutivo e nella rappresentanza dell’Italia sul terreno delle relazioni internazionali. Il nostro Stato democratico non può consentirsi distorsioni e rimozioni del genere". Su di lui durezza senza eguali "Senza mettere in questione l’esito dei procedimenti che lo riguardarono, è un fatto che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza eguali sulla sua persona". Il presidente della Repubblica ricorda anche una pronuncia della Corte dei Diritti dell’Uomo critica riguardo ai processi contro Craxi: "Non si può dimenticare - scrive Napolitano - che la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo - nell’esaminare il ricorso contro una delle sentenze definitive di condanna dell’onorevole Craxi - ritenne, con decisione del 2002, che, pur nel rispetto delle norme italiane allora vigenti, fosse stato violato il diritto ad un processo equo per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea". Anna Craxi: "Viva emozione" "Signor Presidente, è con viva emozione che ho ricevuto il Suo messaggio in occasione del decennale della morte di mio marito. Anche a nome dei miei figli desidero ringraziarLa per le alte parole di apprezzamento che Ella esprime nel suo ricordo, animato da una volontà di rendere al nostro Paese una lettura condivisa della nostra storia recente": è quanto scrive Anna Maria Moncini, vedova di Bettino Craxi, in una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. "Mio marito - aggiunge - lavorò tutta una vita per l’affermazione delle idee in cui egli ha creduto con passione ed entusiasmo per rafforzare i valori di democrazia e di libertà in Italia e nel mondo. Egli riposa in terra di Tunisia, ma - conclude Anna Craxi - non smise mai di pensare al bene dell’Italia e dei suoi concittadini che per Suo tramite intendo in questa occasione ringraziare".

lunedì 3 settembre 2018

Di cosa parla 1984 di George Orwell? 1984 di George Orwell è un romanzo visionario e allo stesso tempo estremamente attuale, nonostante sia stato pubblicato nel lontano 1949.Nel 1984 la dittatura socialista ha preso possesso di tutta l’Europa,modificando e annientando ogni collegamento con il passato. Il mondo è diviso in tre potenze totalitarie, che si alleano e si scontrano con cadenza quasi fissa: l’Eurasia, l’Estasia e l’Oceania, che ha i suoi ministeri nella vecchia Londra. Qui vive Winston Smith, il protagonista del romanzo 1984, impiegato del Minver, ilMinistero della Verità, e il suo lavoro è eliminare e riadattare le notizie contenute nei libri e nei giornali, che non seguano le linee guida imposte dal partito. Il capo supremo della “moderna dittatura” in cui vive Smith è il Grande Fratello (nella versione originale il termine stava a significare “Fratello maggiore”), colui che tutto vede e tutto sente attraverso i videoschermi installati nelle case di tutti i cittadini. I videoschermi servono a comunicare i grandi successi del Governo e controllare ventiquattro ore su ventiquattro i cittadini. Il Grande Fratello convince la popolazione che l’attuale Governo sia il migliore di tutti i tempi e per mezzo della psicopolizia, elimina i potenziali rivoltosi. Basta anche un semplice gesto davanti ad un teleschermo, e si può essere arrestati e polverizzati. In un clima di convinta rassegnazione, Winston Smith vive la sua esistenza lottando con un dubbio atroce che gli rovina la mente e lo porta a compiere azioni potenzialmente pericolose. Com’era la vita prima del Grande Fratello? Per trovare una risposta ai suoi dubbi, Smith si spinge nei sobborghi dove vivono i Prolet, persone che il Partito ha abbandonato a se stesse perché incapaci di entrare negli apparati produttivi del Socing, la politica portata avanti nel totalitarismo del libro 1984. Mentre il Grande Fratello convince il suo popolo che non può esserci una qualità della vita migliore di quella offerta dal Partito, il protagonista del romanzo 1984 inizia a vedere piccolissimi segnali di cedimento nell’apparato totalitario, conoscendo, sempre in gran segreto, alcuni dissidenti. George Orwell nel libro 1984 descrive nei minimi dettagli la società, la struttura degli edificie il potere mediatico che il Grande Fratello esercita sulla popolazione dell’Oceania. Ma la parte più raccapricciante e realistica del romanzo è la descrizione di come la gente siaeffettivamente convinta che la dittatura del Grande Fratello sia la migliore soluzione auspicabile. La popolazione, infatti, accetta senza mai dubitare le verità imposte dal partito, agendo di conseguenza e venerando il suo capo supremo.  1984 è un romanzo davvero molto bello, che fa riflettere sull’importanza della libertà di pensiero e di stampa, ma che vuole essere anche un monito a cercare sempre e comunque conferma alle notizie che il potere, qualunque vestito esso indossi, fornisce attraverso gli organi d’informazione. Chi era George Orwell? Sotto lo pseudonimo di George Orwell si nasconde Eric Arthur Blair nato a Motihari, in India, il 25 giugno 1903 e morto a Londra il 21 gennaio 1950. E' stato scrittore e giornalista, ma è ricordato soprattutto per il suo ruolo di opinionista culturale e politico. Ha avuto una vita di stenti e privazioni ed è stato sostenitore armato del marxismo. Tra le sue battaglie, infatti, c'è stata anche quella in Spagna, contro il regime del generalissimo Franco. Nonostante fosse politicamente schierato con i comunisti, non esitò a denigrare il socialismo staliniano nel suo“1984”, mettendo in risalto come Stalin stesse tradendo ogni più elementare fondamento del socialismo stesso. Le trasposizioni cinematografiche del libro sono diverse e tutte a loro modo interessanti. Il primo film è del 1954, ad opera di Rudolph Cartier che ne fece un adattamento televisivo per la BBC, mentre la prima proiezione al cinema avverrà due anni dopo: il film s'intitola “Nel duemila non sorge il sole (1984)” e la regia è di Michael Anderson. Nel 1984 Michael Radford realizza l'omonimo film, ambientando alcune scene nei luoghi di Londra effettivamente citati da Orwell. Le sue storie, spesso autobiografiche, hanno contribuito a dare alla sua immagine un taglio da esploratore della società. I suoi romanzi più famosi sono:“Senza un soldo a Parigi e Londra”, “Giorni in Birmania”, “Fiorirà l'aspidistra”, “Omaggio alla Catalogna”, “La fattoria degli animali” e “1984”.

giovedì 30 agosto 2018

ENRICO MATTEI , stessa morte, stesso sogno: un’Italia libera Nel 55° anniversario della morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, del suo pilota personale Irnerio Bertuzzi e del giornalista americano che viaggiava con loro, William McHale di Life, ricordiamo non solo il sogno di Mattei, quello di “fare” la benzina oltre che automobili, ma anche quello del suo pilota Irnerio Bertuzzi, già coraggiosissimo ed eroico pilota dell’Areonautica nazionale repubblicana, della Rsi, che divenne dal 1957 fino alla morte, l’uomo di cui Mattei si fidava ciecamente, lui che era stato un partigiano bianco e che aveva la scorta formata dai vecchi compagni della resistenza. I due erano diventati amici, Mattei gli aveva regalato un cane da caccia, essendo entrambi appassionati di arte venatoria. Di Enrico Mattei è stato detto e scritto tutto, con ogni mezzo: libri, articoli, film, documentari. Oggi sappiamo che aveva un sogno italiano, quella di rendere la sua patria il più possibile indipendente dalle forniture energetiche,e per farlo aveva anche aperto concretamente al nucleare, capendo che il futuro era quello. Sappiamo anche, oggi, che Mattei, Bertuzzi e McHale furono assassinati e che quello di Bascapè non fu un “incidente” di volo. Oltre al fatto che Bertuzzi era espertissimo e attentissimo, ci sono le testimonianze di persone che hanno visto l’aereo esplodere e poi precipitare, malgrado il fatto che alcune di queste testimonianze furono prontamente ritrattate. “Gli obiettivi di Mattei in Italia ed all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendeono perseguire in Italia”. Così si legge in un rapporto del Dipartimento di Stato americano datato 3 settembre 1957. Il 1957 è l’anno in cui l’Eni di Enrico Mattei stringe accordi che rimarranno alla storia con i governi dell’Egitto e dell’Iran. Ed è proprio da quell’anno che la politica dell’ente energetico italiano si manifesta in tutta la sua carica dirompente per gli interessi petroliferi anglo-americani nel Mediterraneo (vedi il libro Mattei Obiettivo Egitto- L’Eni, Il Cairo, le Sette Sorelle – Armando Editore). Egitto, Iran, ma non solo: Mattei stava per chiudere l’accordo anche con l’Algeria, cosa che ha dato la stura a ipotesi improbabili come la presenza dell’Oas nel concepimento dell’attentato. Mattei infatti si era pronunciato per l’indipendenza dell’Algeria, cosa che aveva disturbato la Francia e le sue potenti compagnie petrolifere. Ma anche gli inglesi furono danneggiati da Mattei: il presidente dell’Eni si era infatti adoperato per far approvare in Iraq arabo una legge, la 80, che estrometteva le aziende petrolifere inglesi dal 90% del territorio iracheno. Operazione però vanificata da un golpe militare, sostenuto dagli angloamericani, che sovvertì il regime di Qassem e, come prima misura, cancellò proprio quel provvedimento. Il problema cruciale era il sogno di Mattei relativo alla la sovranità energetica dell’Italia. In un momento in cui si riparla di sovranità.

domenica 26 agosto 2018

CROLLATO IL PONTE DI GENOVA

Crollo del Ponte di Genova, tiranti "ridotti del venti per cento": Ministero e Autostrade “sapevano” Il verbale di una riunione tra Infrastrutture, Direzione generale di vigilanza, Provveditorato opere pubbliche e società di gestione dimostra che fin da febbraio 2018 la gravità della corrosione era nota. Il documento è firmato da Roberto Ferrazza e Antonio Brencich, ora nominati presidente e membro esperto della commissione d'indagine del governo. La strage del ponte Morandi a Genova non può essere una sorpresa. Il ministero delle Infrastrutture, la Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali a Roma e il Provveditorato per le opere pubbliche di Piemonte-Valle d'Aosta-Liguria a Genova, insieme con Autostrade per l'Italia della famiglia Benetton, conoscevano perfettamente la gravità del degrado del viadotto collassato la mattina di martedì 14 agosto, provocando la morte di 43 persone. Almeno sette tecnici, cinque dello Stato e due dell'azienda di gestione, sapevano infatti che la corrosione alle pile 9 (quella crollata) e 10 aveva provocato una riduzione fino al venti per cento dei cavi metallici interni agli stralli, i tiranti di calcestruzzo che sostenevano il sistema bilanciato della struttura. E che nel progetto di rinforzo presentato da Autostrade erano stati rilevati «alcuni aspetti discutibili per quanto riguarda la stima della resistenza del calcestruzzo». Nonostante queste conclusioni, in sei mesi da allora né il ministero né la società concessionaria hanno mai ritenuto di dover limitare il traffico, deviare i mezzi pesanti, ridurre da due a una le corsie per carreggiata, abbassare la velocità. Come si dovrebbe sempre fare, in attesa dell'avvio dei lavori, per garantire la sicurezza e alleggerire il carico e l'affaticamento della costruzione. È tutto scritto nel verbale della riunione con cui il primo febbraio 2018 il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova rilascia il parere obbligatorio sul progetto di ristrutturazione presentato da Autostrade. Il documento, che smentisce quanto la società di gestione continua a dichiarare sull'imprevedibilità del disastro, è firmato tra gli altri dal provveditore, l'architetto Roberto Ferrazza, e dall'esperto esterno, il professore associato della facoltà di ingegneria dell'Università di Genova, Antonio Brencich, che già nel 2016 e più volte nelle interviste tv di questi giorni ha denunciato le condizioni critiche del ponte. Ma nel luogo istituzionale dove portare le proprie osservazioni, in nessuna parte della riunione come dimostra il verbale, nemmeno nel capitolo che riguarda le interferenze con il traffico autostradale, Ferrazza e Brencich prescrivono raccomandazioni sui volumi di traffico che tengano conto delle condizioni dei tiranti, dell'incognita del calcestruzzo. E della conseguente riduzione dei margini di sicurezza, che il crollo ha poi rivelato. Il crollo del ponte merita di sicuro un approfondimento per ricordare i motivi della “gestione” privata dell'opera. Chi ha “ucciso” Genova? E perché il ponte Morandi era in mano private? Mentre la Società Autostrade pensa ai suoi azionisti, ai piccoli investitori, senza nemmeno degnarsi di non far pagare il pedaggio alle autoambulanze, mentre parte della politica nostrana parla come al solito di sciacallaggio da parte di forse politiche avverse, e giornalisti gigioni, per questo caso, invocano lo stato di diritto, magari agognando la prescrizione per i responsabili, visto che per accertare le responsabilità in Italia ci vogliono una decina di anni, sarebbe opportuno e giusto mettere al centro dell’attenzione e di ogni discussione le vittime, i loro familiari, i dispersi, i sopravvissuti e tutti i cittadini di Genova, rimasti coinvolti in questa tragedia che certamente non è stata una fatalità, chiedendoci perché il ponte Morandi era finito in mano Private. “Il 7 febbraio 1992, veniva firmato il Trattato di Maastricht, entrato in vigore l’anno successivo, nel 1993. Il ’93 è l’anno in cui il governo Ciampi istituisce il Comitato Permanente di Consulenza Globale e di Garanzia per le Privatizzazioni; sempre in quell’anno gli accordi del ministro dell’industria Paolo Savona* con il Commissario europeo alla concorrenza Karel Van Miert e quelli del ministro degli Esteri Beniamino Andreatta con Van Miert, impegnano l’Italia a fare la “messa in piega” alle aziende di Stato perché divengano appetibili per gli investitori privati”. Nelle stanze del potere si accende una diatriba tra chi coleva “vendere e chi no” Andreotti non voleva “vendere”, sotto processo a Palermo. Falcone, Borsellino e il Generale Dalla Chiesa uccisi in modo “Brutale” Bettino Craxi ( non ci dimentichiamo di “Sigonella”) anche lui non voleva vendere. Dovette subire un'altra violenza Le monetine davanti all’Hotel Raphael 25 anni fa Bettino Craxi fu contestato all'uscita da un albergo, in quella che nel tempo è diventata la scena simbolo della fine della Prima Repubblica Craxi voleva essere intervistato dalle reti televisive per informare gli italiani di quello che stava succedendo. Gli rapiscono i figli con la minaccia di essere uccisi se avesse rilasciato interviste. Craxi nel 1994 si rifugiò in esilio in Tunisia. E lì trascorse gli ultimi sei anni della sua vita. Pochi mesi pima di morire, nella speranza che il parlamento si decidesse a varare una commissione di inchiesta su Tangentopoli, Craxi scrisse un memoriale di 24 pagine, che poi, non fu consegnato a nessuno, perché la commissione d'inchiesta non fu mai formata, forse per pigrizia, più probabilmente per non sfidare la magistratura, che non avrebbe gradito. Cagliari presidente dell'ENI non voleva vendere, tradotto in carcere ove si “suicidò” Raul Gardini si suicidò a casa, con la pistola trovata pochi metri da lui. Tralascio l'eleco dei suicidi per salvaguardare le loro memoria e integrità morali. Concludo toccando il tasto fiscale. Con le privatizzazioni quanti miliardi ha perduto lo stato di gettito fiscale? Creo che abbia ragione Diego Fusaro, che identifica mani pulite con un “Colpo di Stato”. Il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si prolungò fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le dismissioni presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a 56mila e passa. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale. Anche Beppe Grillo, nel 1992, era a bordo della Britannia. Sì, proprio quella Britannia, sulla quale i potentati albionici costrinsero il Governo Italiano a dare il via alle privatizzazioni industriali. Assieme all’attuale leader del M5S erano presenti i rappresentanti dei poteri forti italiani e decine di manager ed economisti internazionali, invitati dalla Regina Elisabetta in persona. Lo rivela Enrico Mentana, in quei giorni al porto di Civitavecchia con la troupe del TG5. Il giornalista intervistò Beppe Grillo sbarcato dal tender del panfilo. Alle domande di Mentana il futuro leader pentastellato rispose che a bordo erano state discusse cose molto interessanti. Poi si dileguò, rapido come una stella cadente. Anche Emma Bonino ha confermato la presenza a bordo del comico genovese: “Non so a che titolo fosse lì, ma la cosa mi parve abbastanza strana. Oggi tutto è più chiaro”.

mercoledì 7 marzo 2018


Crisi economica, è in arrivo la peggiore mai vista: come si possono difendere l’EUROPA e L'ITALIA?

DA BRUXELLES

Paolo Pellicciari
7/03/2018
Si sentono e vedono spesso ormai nei notiziari tv fantasiosi annunci di “ripresa”. Lo scopo della “buona novella” non è però quello di confortare almeno un po’ un popolo già estenuato da sei anni di durissima crisi, ma solo quello di dare, per osmosi partitocratica, una spintarella a chi è ansioso di tornare in sella al suo “giocattolo” politico.
Se i nostri sempre “distratti” politici smettessero almeno per qualche minuto di girare con occhiali sempre più oscurati dalla loro stessa propaganda mediatica, potrebbero vedere anche loro con chiarezza la gigantesca bolla economico-finanziaria molto vicina ormai al punto di rottura. Una pericolosissima bolla i cui segnali di stress sono già da tempo visibili, ma che ora, con i “terremoti” scatenati dalla Brexit, e da Trump e dalle prossime elezioni europee, si rischia di innescare la peggiore crisi economica che il mondo moderno abbia mai conosciuto.
Lo “sconquasso” delle democrazie occidentali creato dalla globalizzazione selvaggia, alimentata da un capitalismo ottuso e autoreferenziale sul quale nessuno finora è riuscito a mettere freno (e tantomeno ci potrà riuscire Trump con il suo decisionismo estremo, di stampo autoritario che crea tensioni ovunque, non solo di tipo economico-finanziario).
Contemporaneamente si assiste però, a una straordinaria ripresa economica americana che ha raggiunto nell’ultimo semestre una fase di vero “boom” economico. Tutti i principali indicatori economici americani hanno infatti raggiunto livelli di grande positività.
La Borsa viaggia su livelli record, ben sopra a quelli che hanno preceduto la crisi del 2007-2008. (l’indice Standard & Poor’s viaggia al 70% sopra il suo valore medio storico). I valori immobiliari hanno compiuto negli ultimi 12 mesi un ulteriore rialzo di 5 punti percentuali, superando abbondantemente i livelli pre-crisi 2008. L’indice della “confidenza” dei consumatori ha raggiunto il massimo livello da 15 anni a questa parte. La disoccupazione è scesa fino al minimo storico del 4% a livello nazionale. Il dollaro guadagna poco o tanto su quasi tutte le altre valute e l’inflazione è ripartita finalmente raggiungendo (e superando di poco) la fatidica quota del 2% considerata livello ottimale per un regolare cammino dell’economia Italiana.
Ma non è tutto oro quello che luccica. I valori immobiliari hanno raggiunto il top anche grazie al ritorno dei mutui “subprime”. Le operazioni finanziarie continuano a crescere quasi senza freni. Le grandi banche continuano a fare ottimi guadagni riempiendosi la “pancia” di titoli ad alto rischio che, sicuramente, non riusciranno tutte a smaltire per tempo in caso di scoppio della “bolla”.
Ma perché dovrebbe scoppiare quella bolla? La risposta è banale: perché tutte le bolle, se si continua a farle crescere, sono destinate a scoppiare. Chris Taylor sul quindicinale Fortune di inizio marzo cita addirittura dati statistici sull’andamento e l'alternanza “bull – bear” dei mercati per avvisare che i dati statistici fissano in 54 mesi la durata media (finora) del “bull market”. Ma attualmente siamo già nel 95esimo mese di crescita, quindi statisticamente nel 2018 siamo già in piena area di alta probabilità che la bolla possa scoppiare e che una nuova pesantissima crisi possa partire.
Se poi consideriamo che tra le grandi potenze economiche solo gli Usa stanno attualmente attraversando una fase di robusta crescita economica mentre nel resto del mondo, incluso la Cina, o c’è rallentamento o c’è già grave crisi, come attesta il curioso, ma sincero “Misery Index, curato da Bloomberg, il pensiero che tra non molto l’Europa (e l’Italia in particolare,) a causa del suo elevato debito e della sua classe politica fortemente screditata) dovrà di nuovo affrontare un’altra pesantissima crisi, tutto questo potrebbe far gelare il sangue nelle vene a qualunque Presidente del Consiglio o Ministro di vertice di qualunque nazione.
Eppure nei nostri leader, o candidati tali, non si vede traccia alcuna di preoccupazione. Attualmente sono tutti impegnati a sgomitare per essere in prima fila quando potrebbero essere chiamati dal presidente Mattarella per formare il nuovo governo della nuova legislatura. Tra i nostri politici abbonda solo il narcisismo. Non sorprende quindi che l’Italia, più per  motivi politici che economici, sia messa peggio dei nostri principali concorrenti europei e globali. Come riuscirà pertanto a sopportare la nuova grande crisi che (è solo questione di tempo!) arriverà presto a colpire di nuovo sicuramente e ancor più pesantemente il nostro paese?
L’ipotesi di
uscire oggi dall’euro, da soli, è troppo azzardata. Chi aiuterebbe la nostra povera Italietta a camminare da sola? Putin? Trump? Non scherziamo. Il primo pensa solo a far grande la Russia, l’altro a far grande gli Stati Uniti.
L’unica concreta via d’uscita per noi e per l’Europa da questa angosciante situazione sarebbe la creazione (subito!) di una Europa Unita con le medesime normative per tutti ma inizialmente con due monete: un euro forte e un euro debole. Le due monete tenderebbero naturalmente da una parte a rivalutarsi e dall’altra a svalutarsi. Si otterrebbe così un efficace riallineamento in grado di ricreare abbastanza velocemente le condizioni per fare una vera Unione europea senza primi della classe.



venerdì 2 marzo 2018


Il Venezuela è travolto da una crisi senza preceden

 


CON TUTTE LE RISORSE MINERALI NEL 



SOTTOSULO I VENEZUELANI E GLI 



ANIMALI ALLA FAME. CHI E' IL 



REPONSABILE?


MA L'ONU DOVE STA?
Il Venezuela è travolto da una crisi senza 

precedenti. E a pagarne le conseguenze non sono 

solo le persone. In queste ore stanno facendo il 

giro del mondo le immagini di alcuni animali 

visibilmente denutriti tenuti negli zoo senza cibo: 

un leone, una tigre del Bengala, un giaguaro, due 

puma e diversi rapaci sono stati fotografati nello 

zoo di San Francisco, nello stato di Zulia, con il 

fisico segnato dai segni della fame. Animali 

spesso salvati dal bracconaggio che rischiano di 

morire per la crisi economica e politica.

Due condor andini, un maschio e una femmina, 

nati in cattività e portato al parco come parte di 

un programma di allevamento per salvare le 

specie in via di estinzione, ha trascorso settimane 

senza essere alimentati. La disperazione li ha 

portati a uccidere e nutrirsi un altro volatile 

presente nella loro stessa gabbia, raccontano 

gli operatori dello zoo.

All’inizio, per cercare di alleviare le sofferenze 

dei felini e rapaci, gli operatori della struttura 

hanno ucciso anatre, maiali e capre. Poi, data la 

difficoltà di trovare carne, lo staff ha iniziato a 

cacciare le iguane e le tilapie presenti nello stesso 

zoo.

Gli effetti della crisi non si vedono solo ora. Nel 

2016 lo zoo ha subito il furto di almeno 40 

animali, presumibilmente presi da persone che li 

hanno uccisi per nutrirsi.

Situazioni analoghe si sono verificate in altre 

strutture: a Caricuao sempre nel 2016 è stato 

ucciso un cavallo che poi è stato macellato. Nello 

stato di Falcon due maiali selvatici sono stati 

rubati da uno zoo. La stessa cosa è capitata con 

pavoni e altri uccelli nello zoo di Bararida a 

Barquisimeto.

Crescono gli abbandoni di cani e gatti domestici

Il problema degli animali non è però solo 

confinato all’interno degli zoo. Il quotidiano El 

Nacional mette in evidenza il crescente problema 

dei cani e gatti randagi che affligge le strade delle 

città venezuelane. Ad alimentarlo le tante persone 

sempre più povere che non sono più in grado di 

permettersi cibo e vaccinazioni per gli animali e li 

abbandonano.

«Sfortunatamente, ci vediamo immersi in questo 

difficile crocevia economico e ci sono persone 

che, anche contro la loro volontà, si vedono nella 

difficile situazione di abbandonare il loro animale 

domestico - spiega Moisés González, veterinario 

che aiuta a dirigere gli sforzi di sterilizzazione 

messo in atto dall’associazione Canine Support 

Network (RAC) -. Direi che abbiamo riscontrato 

un aumento del 100 per cento del numero di 

persone che ci scrivono perché non possono più 

tenere i loro animali domestici perché stanno 

lasciando il paese o perché non hanno le risorse 

per alimentarli».

El Nacional spiega anche in termini numerici 

l’impossibilità di poter nutrire 

gli  animali domestici: un chilo di cibo per cani 

costa tra gli 0,44 dollari (95.000 bolivares) e 1,40 

dollari (300.000 bolivares). Una quantità di cibo 

che può durare da due a tre giorni. Cifre enormi 

considerando che il salario minimo mensile si 

attesta attualmente a 1,15 dollari.

Le persone che possono permettersi la carne 

hanno preso a nutrire i loro cani con fegatini di 

pollo e altre parti del corpo in genere lasciati 

indietro dal consumo umano. Quelli che non 

possono abbandonano cani e gatti.

A settembre 2016, un proprietario di un cane ha 

detto all’Associated Press che spesso non aveva 

cibo per il suo cane: «Anche noi, a volte, andiamo 

a letto senza mangiare, ed è dura - racconta 

disperato Carlos Parra -. A volte diamo ai cani e 

gatti il cibo per le galline. Dobbiamo perché non 

abbiamo nient’altro». Una scelta disperata che 

può danneggiare la salute dei quattrozampe che 

nei cibi per uccelli non trovano i giusti nutrienti.

La maggior parte dei cani sta morendo di fame e 

si sta impossessando degli angoli delle strade con 

le immondizie. I quattrozampe diventano anche 

prede dei poveri disperati che li uccidono per 

mangiarli: lo scorso settembre, un video ha 

mostrato due uomini a Caracas intenti a uccidere 

macellare un cane di cui si sono spartiti la carne. 

Oltre a mangiare i cani, i venezuelani sembrano 

usare sempre più i loro soldi per comprare cibo 

per cani per proprio consumo, anche perché i 

prodotti alimentari di base come farina, latte e 

olio vegetale sono rigorosamente razionati e 

difficili da procurarsi.

«In un tour di diversi supermercati intorno alla 

capitale, i membri del team di un’associazione ha 

riscontrato che, a seguito della crisi economica, i 

venezuelani comprano cibo destinato agli animali 

per il consumo umano. In molti casi è stato 

osservato che molte persone acquistano e 

mangiano le cosiddette ”salsicce di cane “, il cui 

contenuto è costituito da ossa di pollo macinate 

mescolate con altre parti non commestibili del 

pollo».













ti. E a