Avanza
l’idea che con la globalizzazione sia finita un’epoca iniziata
con l’Illuminismo. E dopo? Ecco le diagnosi Come il romanzo e la
borghesia, i due migliori prodotti della modernità occidentale,
anche la democrazia da quando esiste è in crisi: si interroga sempre
e in continuazione, su se stessa, mentre lotta per la propria (non
garantita) esistenza. Questa volta però, nel quarto lustro del
Ventunesimo secolo, forse non siamo più a una qualche
correzione di rotta e aggiustamento delle procedure. Molti studiosi
concordano ormai sull’ipotesi che siamo nel “dopo la democrazia”.
O
meglio, avanza l’idea che qui in Occidente sia finita la democrazia
come l’abbiamo conosciuta e immaginata a partire dal Secolo dei
Lumi, fino alla globalizzazione. E ancora, fin dall’irruzione dei
partiti di massa sulla scena politica (una forma di
“parlamentarizzazione” della lotta di classe, altrimenti cruenta
perché i proletari erano trattati alla stregua di “selvaggi”
come i popoli colonizzati; e basti pensare a Bava Beccaris o al
massacro dei comunardi di Parigi) a partire dall’ingresso dei
partiti socialisti nel gioco parlamentare dunque, eravamo convinti
che ci fosse un nesso intimo tra le seguenti categorie: progresso,
libertà, democrazia, crescita economica, scolarizzazione di massa,
emancipazione. Le cose andavano insieme, più libertà e più
consumi; più democrazia e maggiore crescita economica e personale e
via coniugando.
Certo,
le guerre mondiali e i fascismi hanno segnato dei passi indietro, ma
dal 1945 regnava in Occidente una specie di stabile e progressiva
convergenza tra il liberalismo e la socialdemocrazia (due avversari
storici): più profitti e più uguaglianza, più libertà e più
garanzie dei lavoratori e fino all’apoteosi, quasi hegeliana, dei
diritti umani nel 1989. Poi, all’improvviso, tutto è finito. I
nostri figli vivranno peggio di noi; il voto non stabilisce legame
tra gli eletti e i cittadini; il lavoro è precario quando c’è; e
il futuro appare come una minaccia angosciante e non più come
promessa e magnifica immaginazione. Del progresso nessuno parla se
non per dire che è “cane morto” e illusione del passato, il sol
d’avvenire è spento e i politici sembrano figuri grotteschi,
dediti a celebrare riti vuoti dal punto di vista semantico, perché
incapaci di suscitare un motto di identificazione con chi ci dovrebbe
rappresentare (e basti pensare all’immagine delle consultazioni
quirinalizie poche settimane fa).
E
allora, cosa ci aspetta? L’abbiamo chiesto a studiosi, filosofi,
scienziati della politica. A partire da Zygmunt Bauman. Ma prima di
sentirlo, due ulteriori premesse. Nel 1991 Christopher Lasch, storico
americano scomparso ventidue anni fa, in un libro “Il paradiso in
Terra” (Neri Pozza) in cui dava addio all’illusione appunto del
progresso, citava un’osservazione di George Orwell (del 1940) per
cui mentre le democrazie offrirebbero agiatezza e assenza di dolore,
Hitler offriva lotta e morte; e ancora, nell’ultimo anno
dell’Ottocento, Georg Simmel, sociologo tedesco cantore della
metropoli con il suo caos e il denaro come la misura di tutto, diceva
di comprendere comunque i laudatori dei valori all’antica e dei
gesti eroici. E allora, anche oggi, di fronte alla Babele del pianeta
globalizzato, stiamo cominciando (sotto le mentite spoglie dei
populismi) a rivalutare il valore della comunità chiusa, isolata e
retta da un uomo forte?
La
risposta di Bauman è sì. Il sociologo parte dalla nozione di
“retrotopia”, utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico,
inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di
fuga dalla angustie di un incerto presente. La retrotopia spiega per
esempio il successo di Trump. Il presidente eletto non ha offerto,
appunto, alcuna visione di un futuro migliore, di avanzamento della
condizione della gente (come un Roosevelt o un Kennedy): il suo
messaggio è invece quello di ripristinare il “glorioso” passato
degli States rurali e proletari, non contaminato dal linguaggio
politicamente corretto delle élite mondializzate, attente alle
“regole”; regole incomprensibili però per l’uomo comune che
così si sente escluso e non all’altezza di competere per il
proprio posto al sole.
Le
élite politiche, a loro volta, non sono in grado di mantenere le
promesse fatte. E non lo sono perché abbiamo a che fare con «il
divorzio tra il potere e la politica». Il potere è sempre meno
legato al territorio, sempre più rappresentato da entità astratte e
immateriali (banche, finanza, mercati). Tutto questo crea
frustrazione, ricerca del colpevole, del capro espiatorio, desiderio
di tornare dalla “condizione cosmopolita” (teorizzata già oltre
un secolo fa da austromarxisti e da socialisti del Bund ebraico)
verso una comunità chiusa e dove è possibile un’illusoria ed
estrema semplificazione. Chiusura e semplificazione (accresciute
dalla paura dei migranti) che si trasformano nel desiderio di un
“uomo forte”. Dice Bauman: «Forse la parola democrazia non sarà
abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di
potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio,
dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali.
Anche
perché, «perfino la speranza è stata privatizzata».
Ma
forse Bauman, non è teorico dell’azione, ma critico dell’esistente
è troppo pessimista (in realtà, in privato ammette di sperare in
una rinascita della sinistra cosmopolita). Forse occorre aggrapparsi
alle parole di Chantal Mouffe, belga, celebre per i suoi studi sul
populismo e sul concetto dell’egemonia, quando parla della
necessità di tornare a una sinistra antagonista e che rigetti il
compromesso liberal-socialdemocratico. O forse ha ragione Pierre
Rosanvallon, politologo francese, tra i più rinomati che va
ripetendo che non siamo più in democrazia (“Contro democrazia. La
politica nell’era della sfiducia”, “Le Bon Gouvernement”) e
propone misure concrete di resistenza. Tra queste: sorvegliare,
vigilare, controllare il potere e «parlar chiaro e dire la verità».
E con quest’ultima parola d’ordine torna alle ricerche di Michel
Foucault sulla “parresia”, il dire ciò che si pensa dei Greci ai
tempi di Pericle, virtù cittadina e mezzo di opposizione alle
tentazioni di ogni tirannide.
Fin
qui la speranza, perché Rosanvallon dice anche che la vecchia idea
di un parlamento che legifera e un governo che esegue non esiste più,
perché il potere politico è ormai in mano all’esecutivo e cresce
la voglia di presidenzialismo ovunque. Gli fa eco David Van
Reybrouck, uno studioso che arriva a teorizzare il sorteggio di
persone chiamate a decidere delle cose della politica, come avveniva
appunto ad Atene, tanto da aver scritto un libro intitolato “Contro
le elezioni” (e aggiunge: «Gli eletti sono élite»). Dice
Donatella Di Cesare, professoressa di Filosofia teoretica a La
Sapienza e femminista con forti tendenze anarchiche: «La democrazia
è l’ultimo tabù. Nessuno osa metterlo in questione, eppure
bisogna cominciare a farlo se non vogliamo la catastrofe e se
desideriamo preservare le nostre libertà». Indica l’America per
dire:
«La
democrazia sta diventando dinastia».
E
allora che fare? «Rendere la democrazia più femmina e meno maschio.
Accettare, in questi tempi di mondializzazione e di flussi di
migranti, una sovranità limitata, condizionata, distaccata
dall’ossessione identitaria, aperta invece ad Altri. Chi esalta la
sovranità rigida, finirà per rinunciare alla libertà in nome
appunto della mera sovranità. Io lo temo». Lo teme pure Jan
Zielonka docente a Saint Antonys College, a Oxford, alla Cattedra
intitolata a Ralph Dahrendorf, per decenni pontefice massimo del
liberalismo.
Da
Varsavia, dove si trova in vacanza, al telefono conferma: «Sta
vincendo la controrivoluzione. Certo, l’ondata controrivoluzionaria
avanza grazie a elezioni e non con putsch militari o barricate, ma
pensare che si possa tornare indietro verso il rassicurante mondo
della democrazia liberale è una follia».
A
questo punto non resta che fare un po’ di ordine e ripetere la
domanda: che fare? La parola va a Emmanuel Todt, personaggio geniale,
controverso, poliedrico, storico «della lunga durata» (così si
autodefinisce), che prima di esplicare il suo pensiero ci tiene a
presentarsi come prosecutore delle tradizioni della «vecchia
borghesia israelitica patriottica». Usa questa definizione desueta
per sottolineare la sua impermeabilità alle mode identitarie, perché
poi difende una certa idea di identità. Otto anni fa Todt pubblicò
un libro intitolato “Après la démocratie” (dopo la democrazia).
Oggi dice: «La storia dell’Occidente non coincide con la storia
della democrazia». E anche: «La democrazia era legata alla
diffusione del sapere a alfabetizzazione delle masse», per arrivare
ad affermare: «Oggi invece le élite, minacciate da un popolo ormai
in grado di leggere e scrivere cercano di stabilire comunque la
differenza culturale. E così tradiscono la democrazia, dicendo che,
chi vota Trump o Brexit è ignorante». Rimarca: «La democrazia
comunque non esiste più. È morta assieme alla globalizzazione e
all’euro, ai flussi migratori incontrollati. Se io non sono padrone
della moneta e del territorio, non posso esercitare i miei diritti
democratici». Ripete: «Non sono uno xenofobo, ho in odio il Front
national, ma mi preme dire ciò che penso».
E
allora, davvero è finita la democrazia? Conclude Ilvo Diamanti. Che
dice due cose fondamentali. La prima: la democrazia è una forma di
potere, di “cratos”, non può dunque essere parziale e deve anzi
corrispondere a un territorio abitato e gestito da una popolazione di
cittadini (una constatazione non del tutto ovvia ai tempi del mondo
globale). In altre parole: la responsabilità, principio della
democrazia contempla la delimitazione, quindi l’esistenza dei
confini. La seconda: la forma della democrazia corrisponde alla
tecnologia della comunicazione. Ai tempi dei notabili, l’arena era
il parlamento e i partiti nascevano nelle Aule delle assemblee,
elette per lo più per censo. Poi sono subentrati i partiti di massa
e si è passati alla piazza e ai giornali. Lo stadio successivo è
stata la personalizzazione e il leaderismo e siamo alla tv. Oggi a
queste forme (nessuna del tutto scomparsa) va aggiunta la Rete. E
siamo alla “democrazia ibrida”. Aggiunge: «La Rete permette
qualcosa che assomiglia alla democrazia immediata, dove la
deliberazione e l’esecuzione avvengono contestualmente. Ma la
democrazia, ha bisogno delle mediazioni, là dove invece è immediata
e radicale (come nell’utopica visione giacobina o ad Atene del V
secolo avanti Cristo) tende ad abolire se stessa». La abolirà?
«Penso», risponde, «che vivremo
in un mix tra democrazia mediata e immediata». E non è un futuro
rassicurante.
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