Viva Pizzetti, lo Stato Fiscale è Neototalitario
Sia lode e gloria al giustissimo allarme lanciato dal garante della privacy, Francesco Pizzetti, a chiusura del settennato del suo incarico. Pizzetti insegna diritto costituzionale – ho dato l’esame con lui, a Torino - e l’impronta liberal-cristiana ne ha sempre ispirato la dottrina. Lode e gloria a lui che afferma finalmente come sia giusta sì la lotta all’evasione fiscale, ma che «siamo in presenza di strappi forti allo Stato di diritto e al concetto di cittadino che ne è la radice». Perché «è proprio dei sudditi essere considerati dei potenziali mariuoli. È proprio dello Stato non democratico pensare che i propri cittadini siano tutti possibili violatori delle leggi. In uno Stato democratico, il cittadino ha il diritto di essere rispettato fino a che non violi le leggi, non di essere un sospettato a priori. Per questo è importante che si consideri questa una fase di emergenza dalla quale uscire al più presto. Se così non fosse – ha concluso – anche lo spread fra democrazia italiana e democrazie occidentali sarebbe destinato a crescere». In piccolo, lo ricordo tutte le mattine agli ascoltatori di radio24, e spesso c’è chi dice che difendo gli evasori. Il solo fatto che lo Stato abbia inculcato tale riflesso condizionato, per cui ogni misura finisce per essere buona purché l’erario incassi di più, testimonia il rischio strisciante di diventare sudditi prima nella psiche, e poi di fatto.
La lotta all’evasione ha spinto ormai i governi di sinistra prima, di destra poi, dei tecnici ora, a un crescendo di misure che non hanno eguali in alcun Paese avanzato, anche se la propaganda fiscale dice il contrario. Il limite al contante a 1000 euro, per esempio, non c’è in Germania come non c’è nel Regno Unito. In Francia c’è un limite mensile alle operazioni in contanti oltre il quale scatta la segnalazione. A cominciare dal 2012, in Italia siamo passati dalla fotografia statica dei saldi di conti bancari prima vigente, alla condivisione in banche dati pubbliche dell’intera dinamica quotidiana di ogni operazione bancaria di ciascun residente. Consentendo così ad Agenzia delle Entrate e pubblici ministeri il controllo comportamentale e profilato di ciascuno di noi. L’agente delle imposte, come il pm, sulla mera successione temporale di operazioni bancarie potrà disporre l’apertura di fascicoli in cui il semplice determinarsi di flussi può costituire ipotesi di violazione fiscale e reato.
Molti pensano che tutto ciò sia necessario. Ho già scritto che mi ha dato molto da riflettere il libro ultimo del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, Soldi Sporchi. Quando a Grasso ho chiesto in trasmissione se ritenesse giusta questa misura, mi ha risposto che difendere l’opacità e la libertà del capitale transnazionale è difendere la possibilità della mafia di nascondersi, e con lei di tutti coloro che vogliono nascondere i proventi agli Stati e al fisco. Ho rabbrividito, sentendo la privacy di contribuenti e imprese accomunata alla mafia.
Il professor Pizzetti, in questi anni e ieri, ha sempre sottolineato come tutti questi dati condivisi in banche dati pubbliche iperporose, e con migliaia di punti d’accesso, siano un’enorme forma di formaggio che fa gola a molti topi. L’esperienza di questi anni dovrebbe averci dimostrato la difficoltà di controllare davvero l’infinito numero di punti di accesso a banche dati unificate, tributarie e catastali, bancarie e contributive. Per limitare gli abusi il garante della Privacy si è trovato, vista l’esilità della struttura di cui era a capo, a svuotare l’oceano con un cucchiaino. Cinque anni fa i soli punti d’accesso nei Comuni italiani risultavano oltre 90mila. Oggi, dopo gli sforzi di Pizzetti, ne restano oltre 20mila. La promessa tracciabilità degli ingressi a fini di controllo resta teorica, le password sono spesso condivise. A tali accessi si sommano migliaia di altri nell’intero sistema periferico delle quattro agenzie tributarie, guardia di finanza, forze dell’ordine, polizia giudiziaria. La tracciabilità è ancor più virtuale che nei Comuni. Malgrado il giro di vite che si tentò dopo lo scandalo relativo agli accessi – centinaia, erano – per controllare Prodi e sua moglie, oltre a Berlusconi e famiglia.
Dovremmo inoltre tutti ricordare il fenomeno su cui hanno indagato diverse Procure, il mercato nero opaco e parallelo delle security private – funzione affidata nelle imprese italiane non a caso spesso ad ex appartenenti dei corpi dello Stato. E’ un mercato illecito che prospera esattamente su dati ricavati illecitamente da punti d’accesso alle banche dati sensibili pubbliche, accessi omertosamente effettuati da ex colleghi e amici in cambio di piaceri e denaro.
Ieri il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino ha ricordato dove sia giunto intanto il peso fiscale per chi le imposte le paga: «un livello che ha pochi confronti nel mondo». Non sarà solo il mendace 45% di qui al 2014, come dice la contabilità pubblica. Levando dal denominatore, il Pil, il 17% di nero inglobatovi dall’Istat, allora la pressione fiscale reale come tante volte abbiamo ripetuto con Luca Ricolfi si innalzerà intorno al 60% del Pil, e il total tax rate sul reddito lordo delle le imprese salirà oltre il 68% attuale. Occorrerebbero almeno 50 miliardi di entrate pubbliche in meno, ha aggiunto Giampaolino, 32 in meno sul lavoro e 18 per le imprese, per riavvicinarci alle medie europee.
Invece, governasse la sinistra o governasse la destra, la spesa pubblica corrente e le entrate al suo inseguimento sono sempre e solo salite. Più di 20 punti di Pil di maggior pressione fiscale in 30 anni, nell’arco di una sola generazione. Mentre i Paesi ad alto prelievo hanno modulato aumenti in un secolo da Bismarck in poi, in cambio di un’efficienza pubblica che da noi manca, e con assai minori fenomeni di nicchie di impresa e mercato protetti, al riparo di prezzi e tariffe e aste falsate governate dal pubblico, il che spiega la dinamica di crescita incredibile dei beni e consumi intermedi della PA nel nostro Paese, solo scalfiti da meccanismi di acquisizione centralizzata tipo Consip. Insieme alle piante organiche superfetate – negli anni ‘70 i dipendenti pubblici sono aumentati del 34,5% contro un più 7,2% dei lavoratori privati, negli anni ‘80 del 15,%, contro il 4,9% privato, avevamo 22 dipendenti per lavoratore pubblico nel 1970, sono 13 scarsi oggi - sono le forniture fuori controllo la realtà cancerogena della spesa pubblica italiana, non i servizi finali da tagliare al pubblico, come ogni volta la politica lamenta allontanando da sé la scure di diminuzioni reali dei livelli di spesa. Tasse e spese insieme sono scesi di punti e punti di Pil in paesi come Svezia, Germania, Irlanda, Australia, Nuova Zelanda. Solo da noi da anni e anni ci sentiamo ripetere che le spending review sono in corso perché la politica non si sa dove tagliare con precisione. E che la montagna del debito pubblico non si abbatte con cessioni dei mattoni di Stato, ma con gli avanzi primari realizzati cavandoci ancora più sangue da un reddito sempre più magro.
E’ anche per tutto questo, che fare spallucce alla violazione fiscale della privacy, aderire alla tesi secondo la quale nulla ha da temere chi nulla ha da nascondere, significa essersi mentalmente arresi a George Orwell. Tanto vale aggiungere allora che l’ignoranza è forza e lo slogan che da sempre è proprio dei totalitarismi:cioè che la privacy è l’ombra dietro la quale si nascondono i nemici dello Stato. Di Oscar Giannino
sabato 24 marzo 2012
lunedì 5 marzo 2012
SOCCI: COSI' MONTI HA ABOLITO DIO E ANCHE IL POPOLO ITALIANO
Salva-Italia: il governo dà l'ok alle aperture domenicali dei negozi. Cancellati i riti sociali e puniti i lavoratori più deboli
Monte Mario è una collinetta che sovrasta il Vaticano. Non vorrei che Monti Mario pretendesse di sovrastare Dio stesso, spazzando via, con un codicillo, quattromila anni di civiltà giudaico-cristiana (e pure islamica) imperniata sul giorno del Signore, «Dies Dominicus». Comandamento divino, nel Decalogo di Mosè, che è diventato il ritmo della civiltà anche laica, dappertutto. Perfino in Cina. Il codicillo del governo che «abolisce» Dio (o meglio abolisce il diritto di Dio che è stato il primo embrione dei diritti dell’uomo, come vedremo) è l’articolo 31 del «decreto salva Italia». Dove praticamente si decide che dovunque si possono aprire tutti gli esercizi commerciali 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno. Norma che finirà per allargarsi anche all’industria nella quale già è presente questa spinta. Dunque produrre, vendere e comprare a ciclo continuo. Senza più distinzione fra giorni feriali e festivi (Natale compreso), fra giorno e notte, fra mattina e sera.
Sembra una banale norma amministrativa, invece è una svolta di (in)civiltà perché abolendo la festa comune - e i momenti comuni della giornata - distrugge non solo il fondamento della comunità religiosa, ma l’esperienza stessa della comunità, qualunque comunità, dalla famiglia a quella amicale e ricreativa dello stadio. Distrugge la sincronia sociale dei tempi comuni e quindi l’appartenenza a un gruppo, a un popolo. Per questo c’è l’opposizione indignata della Chiesa e dei sindacati (pure di associazioni di commercianti). La cosa infatti non riguarda solo chi - per motivi religiosi - vede praticamente abolita la domenica, il giorno del Signore (per i cristiani è memoria della Resurrezione di Cristo e simbolo dell’Eterno in cui sfocerà il tempo).
Riguarda tutti, ci riguarda come famiglie, come comunità locali o particolari. Infatti è vero che ci sono lavori di necessità sociale che sempre sono stati fatti anche la domenica (pure il commercio in località turistiche e in tempi di vacanza). Ma è proprio l’eccezione che conferma la regola. La regola di un giorno di festa comune, non individuale, ma comune (sia per la liturgia religiosa che per le liturgie laiche), è infatti ciò che ci permette di riconoscerci. Ciò che consente di stare insieme ai figli, di vedere gli amici (allo stadio, al mare, in campagna, in bici, a caccia), di ritrovarsi con i parenti, di dar vita ai tanti momenti comuni o associativi. Se ai ritmi individuali già forsennati della vita si toglie anche l’unico momento comune della festa settimanale (o, per esempio, del «dopocena»), le famiglie ne escono veramente a pezzi. Tutti diventano conviventi notturni casuali come i clienti di un albergo. E si dissolvono i «corpi intermedi», i gruppi e le associazioni in cui l’individuo si realizza. Il giorno di festa comune ci ricorda infatti che non siamo solo individui, ma persone con relazioni e rapporti affettivi. Non siamo solo produttori/consumatori, ma siamo padri, madri, figli, fidanzati, siamo amici, siamo appassionati di questo o di quello, apparteniamo a gruppi, comunità, a un popolo.
Il «giorno del Signore» nasce quattromila anni fa per affermare che tutto appartiene a Dio. Ed è significativo che il comandamento del riposo che fu dato da Dio nella Sacra Scrittura riguardasse – in quell’antichissima civiltà - anche servi, schiavi e animali: era il primo embrione in forma di legge di una liberazione, di un riconoscimento della dignità di tutti, che poi si sarebbe affermato col cristianesimo. Proclamare il diritto di Dio come diritto al riposo per tutti (e addirittura riposo comune) significava cominciare a far capire che niente e nessuno può arrogarsi un potere assoluto sulle creature. Perché tutti hanno una dignità e perfino gli animali vanno rispettati. Come pure la terra (i ritmi della terra) che non può essere sfruttata senza riguardo. Non a caso, proprio sul ritmo settenario della settimana, Dio, nella Sacra Scrittura, comanda al suo popolo quegli anni «sabbatici», che corrispondevano al «giorno del Signore», per cui ogni sette c’era un anno in cui si liberavano gli schiavi, si condonavano i debiti e si faceva riposare la terra.
Questo è il retroterra storico della «Giornata europea per le domeniche libere dal lavoro» che è stata indetta oggi, in dodici paesi europei. È promossa dalla «European Sunday alliance» a cui aderiscono 80 organizzazioni, non solo chiese e comunità religiose (in qualche paese pure ebraica e musulmana), ma anche - e soprattutto - sindacati dei lavoratori e associazioni dei commercianti. Un’inedita coalizione impegnata in una battaglia anche laica. Battaglia di civiltà come fu quella per la giornata di otto ore all’albore del movimento sindacale: infatti si cita come esemplare il caso delle lavoratrici rumene di una catena di supermercati tedeschi che a Natale e Capodanno scorsi si sono ribellate al lavoro festivo e hanno vinto.
Fra l’altro la Corte Costituzionale tedesca ha dichiarato anticostituzionale l’apertura festiva perché lede la libertà religiosa e il diritto al riposo: la vita dell’uomo non è solo comprare e vendere. Perché non siamo schiavi. La situazione italiana si annuncia come la più dura. Infatti «in nessun Paese europeo esiste che i negozi stanno aperti 24 ore al giorno e sette giorni su sette», dichiara ad Avvenire il sindacalista della Cisl Raineri. Oltretutto con una decisione piombata dall’alto. Cgil, Cisl e Uil stamattina distribuiscono un volantino dove si legge: «Oggi non fare shopping! La domenica non ha prezzo». I sindacati dicono che sarebbero soprattutto le donne a pagare il prezzo più duro perché sono quasi il 70 per cento del personale nel commercio e sono quelle che già oggi soffrono di più la difficile armonizzazione dei «tempi di lavoro» con la famiglia.
È anche provato, dagli esperimenti fatti finora, che questa devastante trovata non avrebbe alcun beneficio né sull’occupazione, né sui consumi, infatti la gente non compra perché è tartassata dallo Stato e dalla recessione, non perché il supermercato è chiuso alla domenica. Infatti la Regione Lombardia ha già annunciato ricorso alla Corte Costituzionale contro la norma «ammazza domeniche». E la seguono a ruota Toscana e Veneto. Il mondo cattolico giudica inaccettabile quella norma ed è in subbuglio. Ora agli italiani, oltre ai soldi, pretendono di sottrarre pure Dio e la domenica. La Chiesa si sente «derubata» di una cosa assai più preziosa dei soldi che dovrà pagare per l’Imu (a proposito della quale non è affatto chiaro se e come le scuole cattoliche si salveranno).
Già la presunzione di Monti nel chiamare «salva Italia» il suo decreto tartassatorio, oltreché irridente è quasi blasfema. Per i cristiani infatti a «salvare» è solo Dio. Non imperatori, tecnocrati, partiti, condottieri, duci o idoli vari. Al sedicente «salvatore» SuperMario si addice la battuta: «Dio esiste, ma non sei tu. Rilassati».Non è un caso se ieri questa decisione del «governo mari e Monti» è stata fulminata nell’editoriale di Avvenire come «emblematica di una deriva culturale, un nuovo “pensiero unico” che maschera come una maggiore libertà e progresso, ciò che in realtà è un impoverimento e una restrizione della libertà stessa».
Avvenire (che ieri, con una bella pagina, ha fornito tutte le informazioni sull’iniziativa di oggi) denuncia il «ribaltamento di valore» che spazza via l’uomo e il giorno del Signore e «mette al centro la merce». Sacrosanto. Ma allora perché sostenere entusiasti questo governo e far accreditare perfino l’idea che esso segni il «ritorno alla politica» dei cattolici? Vorrei chiedere pure ai cosiddetti «ministri cattolici» Riccardi, Passera e Ornaghi: com’è stato possibile approvare entusiasticamente una tale assurdità? Perché una poltroncina val bene una messa? Speriamo di no. Ma se non è così si oppongano a questa norma. Si facciano sentire.
di Antonio Socci
Monte Mario è una collinetta che sovrasta il Vaticano. Non vorrei che Monti Mario pretendesse di sovrastare Dio stesso, spazzando via, con un codicillo, quattromila anni di civiltà giudaico-cristiana (e pure islamica) imperniata sul giorno del Signore, «Dies Dominicus». Comandamento divino, nel Decalogo di Mosè, che è diventato il ritmo della civiltà anche laica, dappertutto. Perfino in Cina. Il codicillo del governo che «abolisce» Dio (o meglio abolisce il diritto di Dio che è stato il primo embrione dei diritti dell’uomo, come vedremo) è l’articolo 31 del «decreto salva Italia». Dove praticamente si decide che dovunque si possono aprire tutti gli esercizi commerciali 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno. Norma che finirà per allargarsi anche all’industria nella quale già è presente questa spinta. Dunque produrre, vendere e comprare a ciclo continuo. Senza più distinzione fra giorni feriali e festivi (Natale compreso), fra giorno e notte, fra mattina e sera.
Sembra una banale norma amministrativa, invece è una svolta di (in)civiltà perché abolendo la festa comune - e i momenti comuni della giornata - distrugge non solo il fondamento della comunità religiosa, ma l’esperienza stessa della comunità, qualunque comunità, dalla famiglia a quella amicale e ricreativa dello stadio. Distrugge la sincronia sociale dei tempi comuni e quindi l’appartenenza a un gruppo, a un popolo. Per questo c’è l’opposizione indignata della Chiesa e dei sindacati (pure di associazioni di commercianti). La cosa infatti non riguarda solo chi - per motivi religiosi - vede praticamente abolita la domenica, il giorno del Signore (per i cristiani è memoria della Resurrezione di Cristo e simbolo dell’Eterno in cui sfocerà il tempo).
Riguarda tutti, ci riguarda come famiglie, come comunità locali o particolari. Infatti è vero che ci sono lavori di necessità sociale che sempre sono stati fatti anche la domenica (pure il commercio in località turistiche e in tempi di vacanza). Ma è proprio l’eccezione che conferma la regola. La regola di un giorno di festa comune, non individuale, ma comune (sia per la liturgia religiosa che per le liturgie laiche), è infatti ciò che ci permette di riconoscerci. Ciò che consente di stare insieme ai figli, di vedere gli amici (allo stadio, al mare, in campagna, in bici, a caccia), di ritrovarsi con i parenti, di dar vita ai tanti momenti comuni o associativi. Se ai ritmi individuali già forsennati della vita si toglie anche l’unico momento comune della festa settimanale (o, per esempio, del «dopocena»), le famiglie ne escono veramente a pezzi. Tutti diventano conviventi notturni casuali come i clienti di un albergo. E si dissolvono i «corpi intermedi», i gruppi e le associazioni in cui l’individuo si realizza. Il giorno di festa comune ci ricorda infatti che non siamo solo individui, ma persone con relazioni e rapporti affettivi. Non siamo solo produttori/consumatori, ma siamo padri, madri, figli, fidanzati, siamo amici, siamo appassionati di questo o di quello, apparteniamo a gruppi, comunità, a un popolo.
Il «giorno del Signore» nasce quattromila anni fa per affermare che tutto appartiene a Dio. Ed è significativo che il comandamento del riposo che fu dato da Dio nella Sacra Scrittura riguardasse – in quell’antichissima civiltà - anche servi, schiavi e animali: era il primo embrione in forma di legge di una liberazione, di un riconoscimento della dignità di tutti, che poi si sarebbe affermato col cristianesimo. Proclamare il diritto di Dio come diritto al riposo per tutti (e addirittura riposo comune) significava cominciare a far capire che niente e nessuno può arrogarsi un potere assoluto sulle creature. Perché tutti hanno una dignità e perfino gli animali vanno rispettati. Come pure la terra (i ritmi della terra) che non può essere sfruttata senza riguardo. Non a caso, proprio sul ritmo settenario della settimana, Dio, nella Sacra Scrittura, comanda al suo popolo quegli anni «sabbatici», che corrispondevano al «giorno del Signore», per cui ogni sette c’era un anno in cui si liberavano gli schiavi, si condonavano i debiti e si faceva riposare la terra.
Questo è il retroterra storico della «Giornata europea per le domeniche libere dal lavoro» che è stata indetta oggi, in dodici paesi europei. È promossa dalla «European Sunday alliance» a cui aderiscono 80 organizzazioni, non solo chiese e comunità religiose (in qualche paese pure ebraica e musulmana), ma anche - e soprattutto - sindacati dei lavoratori e associazioni dei commercianti. Un’inedita coalizione impegnata in una battaglia anche laica. Battaglia di civiltà come fu quella per la giornata di otto ore all’albore del movimento sindacale: infatti si cita come esemplare il caso delle lavoratrici rumene di una catena di supermercati tedeschi che a Natale e Capodanno scorsi si sono ribellate al lavoro festivo e hanno vinto.
Fra l’altro la Corte Costituzionale tedesca ha dichiarato anticostituzionale l’apertura festiva perché lede la libertà religiosa e il diritto al riposo: la vita dell’uomo non è solo comprare e vendere. Perché non siamo schiavi. La situazione italiana si annuncia come la più dura. Infatti «in nessun Paese europeo esiste che i negozi stanno aperti 24 ore al giorno e sette giorni su sette», dichiara ad Avvenire il sindacalista della Cisl Raineri. Oltretutto con una decisione piombata dall’alto. Cgil, Cisl e Uil stamattina distribuiscono un volantino dove si legge: «Oggi non fare shopping! La domenica non ha prezzo». I sindacati dicono che sarebbero soprattutto le donne a pagare il prezzo più duro perché sono quasi il 70 per cento del personale nel commercio e sono quelle che già oggi soffrono di più la difficile armonizzazione dei «tempi di lavoro» con la famiglia.
È anche provato, dagli esperimenti fatti finora, che questa devastante trovata non avrebbe alcun beneficio né sull’occupazione, né sui consumi, infatti la gente non compra perché è tartassata dallo Stato e dalla recessione, non perché il supermercato è chiuso alla domenica. Infatti la Regione Lombardia ha già annunciato ricorso alla Corte Costituzionale contro la norma «ammazza domeniche». E la seguono a ruota Toscana e Veneto. Il mondo cattolico giudica inaccettabile quella norma ed è in subbuglio. Ora agli italiani, oltre ai soldi, pretendono di sottrarre pure Dio e la domenica. La Chiesa si sente «derubata» di una cosa assai più preziosa dei soldi che dovrà pagare per l’Imu (a proposito della quale non è affatto chiaro se e come le scuole cattoliche si salveranno).
Già la presunzione di Monti nel chiamare «salva Italia» il suo decreto tartassatorio, oltreché irridente è quasi blasfema. Per i cristiani infatti a «salvare» è solo Dio. Non imperatori, tecnocrati, partiti, condottieri, duci o idoli vari. Al sedicente «salvatore» SuperMario si addice la battuta: «Dio esiste, ma non sei tu. Rilassati».Non è un caso se ieri questa decisione del «governo mari e Monti» è stata fulminata nell’editoriale di Avvenire come «emblematica di una deriva culturale, un nuovo “pensiero unico” che maschera come una maggiore libertà e progresso, ciò che in realtà è un impoverimento e una restrizione della libertà stessa».
Avvenire (che ieri, con una bella pagina, ha fornito tutte le informazioni sull’iniziativa di oggi) denuncia il «ribaltamento di valore» che spazza via l’uomo e il giorno del Signore e «mette al centro la merce». Sacrosanto. Ma allora perché sostenere entusiasti questo governo e far accreditare perfino l’idea che esso segni il «ritorno alla politica» dei cattolici? Vorrei chiedere pure ai cosiddetti «ministri cattolici» Riccardi, Passera e Ornaghi: com’è stato possibile approvare entusiasticamente una tale assurdità? Perché una poltroncina val bene una messa? Speriamo di no. Ma se non è così si oppongano a questa norma. Si facciano sentire.
di Antonio Socci
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